Ha scelto di condividere la sua esperienza con il Covid-19 sui social, per lasciare una testimonianza di come il coronavirus possa colpire indistintamente anche i più giovani. Lui è Lorenzo Stocchi, 35enne di Montevarchi e collaboratore del sindaco di Terranuova Bracciolini, Sergio Chienni, dimesso quest’oggi dall’ospedale San Donato di Arezzo dov’era ricoverato.
“Il 19 ottobre sono dovuto andare al Pronto Soccorso oculistico dell’ospedale di Arezzo per una lesione alla cornea. C’erano moltissimi pazienti in attesa, tutti forniti di mascherina e gel igienizzante. Ma purtroppo in qualche modo il virus, o grazie alle difese immunitarie abbassate o per il fatto che inconsciamente mi toccavo spesso l’occhio, è riuscito a passare. Dopo 5 giorni, mentre ero in ufficio, è arrivato un leggero mal di testa e quando sono arrivato a casa avevo la febbre a 37.3” scrive Lorenzo che aggiunge di essersi messo in autoisolamento per precauzione.
“La mattina successiva sono andato, privatamente, a fare il test seriologico che è risultato negativo. Ma una volta a casa, la febbre era salita a 38.5. Non avevo altri sintomi; ne raffreddore ne tosse, sentivo odori, sapori e tutto il resto. Ma la febbre continuava a salire nonostante le quattro tachipirina 1000 che prendevo al giorno. Poteva benissimo essere una semplice influenza, come qualcosa di più grave. Passati altri tre giorni, il mio medico mi ha fatto la richiesta per il tampone, purtroppo in tutta la provincia non c’era un posto disponibile ed ho dovuto aspettare altre 24 ore. Non volendo coinvolgere nessuno della famiglia, ho preso la macchina e sono andato da solo a fare il tampone al drive-thru ma già sentivo che qualcosa era cambiato, avevo il fiato corto e cominciavo a far fatica a parlare. Una volta tornato, mio babbo mi ha fatto trovare il saturimetro che avevo preso su Amazon qualche giorno prima.. La mia saturazione era a 91 con una frequenza a riposo di 109. Troppo poco ossigeno con troppi battiti. Il mio medico non si sentiva tranquillo ed preferito allertare l’USCA. Purtroppo anche loro erano pieni di pazienti da visitare ed io ancora non avevo il risultato del tampone, quindi non avrebbero saputo se ricoverarmi per in un ospedale Covid o normale”.
Lorenzo prosegue il suo racconto, spiegando come già il giorno successivo quando è arrivata l’Usca non riusciva più a parlare. Fiato corto, difficoltà a respirare, letteralmente “boccheggiavo”. Mi hanno subito portato al San Donato di Arezzo. Ho passato 50 minuti in attesa fuori dal pronto soccorso, perché seppur fossero le 22:30, c’erano altre cinque ambulanze davanti a me. Dopo la visita ed il tampone mi hanno portato in malattie infettive. Con l’RX torace si sono accorti che il polmone destro era praticamente collassato, ed anche il sinistro era messo male. Mi hanno messo il casco per respirare (CPAP, che ho tenuto per 11 lunghissimi giorni), ossigeno sparato a 60lt/minuto, un rumore assordante e continuo che mi impediva di sentire quello che mi dicevano i medici. Ed io non potevo esprimermi che a gesti perché non avevo fiato e potevo solo concentrarmi sul respiro dato che non mi bastava l’aria. A quel punto mi hanno portato in terapia intensiva. Ed è cominciato l’incubo”.
“Tra catetere arterioso, catetere venoso, accessi periferici, catetere vescicale, sonde, tubi… Ero limitatissimo nei movimenti e non potevo muovere bene le braccia per scrivere ai miei cari per cercare un conforto. Ero isolato. Nudo in un letto con medici e infermieri che si aggiravano per la stanza, somministrandomi terapie e azioni per far ripartire i polmoni. Hanno provato a rincuorarmi, ma psicologicamente era veramente dura. Poi il mio compagno di stanza, in realtà una sala operatoria riadattata, è morto. Ed anche se non lo conoscevo, era lì accanto a me da tre giorni. A quel punto sono crollato.
Durante le notti infinite, ho avuto delle incontrollabili crisi di pianto. Un pianto di disperazione che non mi sarei mai aspettato da me, sempre cinico e razionale. Il quarto giorno hanno chiamato i miei per dirgli che mi avrebbero intubato. Non stavo migliorando ed era l’unica via percorribile. Entrambi i miei genitori in quel momento sono invecchiati. Mia mamma ha passato la notte a piangere e vomitare. Quella notte, il medico della rianimazione ha provato a farmi stare a pancia sotto, che tra casco e tutto il resto era una situazione allucinante, ma per fortuna ero sedato. Miracolosamente gli alveoli hanno cominciato a riaprirsi. Da lì è cominciata la lenta ripresa”.
Da quel momento, riportato in malattie infettive con il casco, Lorenzo sta seguendo una sorta di “svezzamento da ossigeno” come la definisce lui, con i polmoni che devono imparare di nuovo a respirare normalmente dopo quanto accaduto. “Nel frattempo ho avuto delle complicazioni dovute alla degenza, e voglio puntualizzare non alla negligenza di chi mi ha assistito e salvato la vita, semplicemente sono cose che possono succedere in queste situazioni. “Piano piano sto migliorando, la saturazione sale, l’EGA migliora ed anche io mi sento meglio. Certo, se tolgo l’ossigeno per andare in bagno o mangiare dopo qualche minuto mi torna la tosse e l’affanno, ma sto meglio e sono sulla strada della guarigione. Come si vede dalla foto, sono tutto barba e capelli perché con il casco non si mangia, ed avrò perso circa 10/12kg”.
“Se siete arrivati fino qui con la lettura (cosa per la quale vi ringrazio) – scrive Lorenzo nel suo post – avrete capito che è stata un’esperienza terribile. Io ho 35 anni, vado in palestra e sono in ottima forma fisica, non ho patologie pregresse godo (godevo) di ottima salute. Sono sempre stato molto attento a disinfettare correttamente le mani ed ho sempre tenuto la mascherina; eppure il virus è riuscito a passare. Penso al ragazzo di 39 anni di Livorno che è morto per un ritardo, penso al mio compagno di stanza, a tutti quelli che pur lottando non ce l’hanno fatta. Bisogna prevenire il virus a tutti i costi, fare sensibilizzazione e convincere gli scettici. Perché anche loro se ne renderanno conto quando una persona vicina è in fin di vita, ma sarà già tardi”.